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VESPRI SICILIANI

Approfondimento

Approfondimento: VESPRI SICILIANI

Moto popolare con cui nel 1282 la Sicilia insorse contro i francesi di Carlo I d'Angiò, dopo sedici anni di dominio, e si diede agli Aragonesi, legittimi eredi dei diritti dinastici della casa sveva. Secondo la tradizione la scintilla scoccò a Palermo il 30 o 31 marzo 1282, all'ora dei vespri del lunedì di Pasqua, davanti alla chiesa di Santo Spirito. La causa fu un gesto villano che un soldato francese, durante una perquisizione ai passanti, in cerca di armi, avrebbe compiuto nei confronti di una donna che usciva dalla chiesa; i palermitani presenti alla scena uccisero il soldato e in poco tempo l'agitazione si propagò dalla città in tutta l'isola, causando il massacro di circa quattromila francesi: solo pochi riuscirono a salvarsi fuggendo. Ritiratisi in Calabria, i Francesi tentarono una rivincita ma le truppe spagnole sbarcate in Sicilia spensero il tentativo e bloccarono gli Angioini. Le cause dello scontro erano, ovviamente, ben più consistenti e remote. Nello scontro fra papato e impero, che riguardò tutta la cristianità, il processo di unificazione della penisola italiana era stato impedito, tanto da lasciare un quadro politico estremamente frammentato. I timori del papa Clemente IV (1265-1268) erano tesi soprattutto a impedire che il regno di Sicilia e il regno d'Italia si unificassero sotto un unico monarca; da ciò era scaturita la scomunica papale contro Manfredi di Svevia, figlio di Federico II, e la proclamazione di Carlo d'Angiò, fratello del re di Francia, come re di Sicilia. Con l'ascesa al potere della dinastia angioina aveva avuto inizio la persecuzione degli appartenenti alla dinastia sveva, cui era seguita la confisca dei beni e l'occupazione delle cariche da parte di nobili francesi. La spedizione di Carlo d'Angiò era stata finanziata in maniera massiccia dai grandi banchieri fiorentini (i Bardi, i Peruzzi, gli Acciaiuoli), che quindi avevano messo in atto le loro speculazioni, impossessandosi della finanza pubblica, del commercio del denaro, del sistema degli appalti, dei più importanti traffici, talvolta persino delle più importanti cariche di responsabilità a corte. Nell'ascendere al trono di Sicilia l'angioino aveva preso accordi con il papato, in forza dei quali la dinastia francese si impegnava a non accampare pretese sulla corona imperiale, a corrispondere un tributo al papa (superiore di trenta volte a quello stabilito per gli Svevi), a lasciare che il clero risultasse esente dalle imposte. Nonostante gli accordi, però, il D'Angiò era stato tentato dalla sua ambizione di poter prendere possesso di un più vasto territorio, che si estendesse da Tunisi a Costantinopoli: aveva incominciato a ordire, quindi, una serie di trame, che però furono subito sciolte dalla ribellione della Sicilia. Il re d'Aragona, Pietro III, ritenuto il legittimo erede al trono svevo (poiché marito di Costanza, figlia di Manfredi, ultima erede della dinastia normanno-sveva), fu convocato perché intervenisse a ristabilire un ordine che era stato sovvertito a danno dei siciliani, soprattutto dei nobili, ancora legati alla casa sveva e delusi dalla politica angioina. L'insofferenza per gli angioini, infatti, era causata non soltanto da un fiscalismo vessante ma anche dal trasferimento della capitale, che aveva causato la marginalità della posizione dell'isola rispetto al resto del regno, e dall'atteggiamento di indifferenza dei funzionari e nobili francesi, completamente ignari della realtà dell'isola. La rivolta, insomma, ebbe cause molteplici e complesse: il rancore dovuto alla prepotenza e alle vessazioni fiscali del governo angioino, il malcontento per il trasferimento della capitale da Palermo a Napoli ma soprattutto la congiura internazionale ordita dai nemici di Carlo d'Angiò -oltre ai ghibellini italiani, l'imperatore bizantino Michele Paleologo, che insieme a Genova aveva interesse a contrastare le mire egemoniche di Carlo I sul Mediterraneo orientale, e gli esuli meridionali e siciliani che, già fedeli agli Svevi, miravano a tornare in patria con l'aiuto di Pietro III d'Aragona-. La corona era stata, quindi, offerta con un accordo a Pietro III che, appoggiato politicamente da Giovanni da Procida, conquistò l'intera isola nel settembre del 1282. Un semplice tumulto popolare degenerò, quindi, in una sanguinosa guerra, che coinvolse tutte le potenze mediterranee (Filippo III di Francia e il papa sostenevano, ovviamente, gli Angioini). La guerra continuò per vent'anni, anche dopo la morte dei protagonisti, fino al 1302, quando venne firmata la pace di Caltabellotta, che comunque non ne segnò la fine ma solo una tregua: il trattato stabilì che Federico II d'Aragona, fratello del re Giacomo d'Aragona (figlio e successore di Pietro III), avrebbe regnato in Sicilia con il titolo di re di Trinacria e avrebbe sposato Eleonora, figlia di Carlo II d'Angiò; gli Angioini, ai quali rimaneva il solo titolo di re di Sicilia, avrebbero riottenuto l'isola alla morte di Federico II. Quest'ultima clausola non venne rispettata e la Sicilia fu riunita all'Italia meridionale solo quando nel 1442 Alfonso V d'Aragona divenne re di Napoli. La conseguenze della guerra del Vespro si sarebbero avvertite anche molti secoli dopo. La separazione del regno di Sicilia da quello di Napoli portò alla costituzione di una realtà politica, sociale ed economica che avrebbe dato vita a un'identità del tutto autonoma. Neppure nel Cinquecento le due realtà furono riunificate: gli Spagnoli conservarono la separazione fra i due stati, che continuarono ad avere strutture politico-amministrative distinte. Di conseguenza, quando nel Settecento e nel primo Ottocento si realizzò l'unione con Napoli, i siciliani si videro come subordinati; da qui nacquero le insurrezioni del 1821 e i fermenti di ribellione, che anche in seguito furono espressione del desiderio di autonomia e di separazione da parte degli isolani. V. anche ANGIOINI e ARAGONESI e PACE DI CALTABELLOTTA

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