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MILLE, SPEDIZIONE DEI

Approfondimento

Approfondimento: MILLE, SPEDIZIONE DEI

Spedizione guidata da Giuseppe Garibaldi nel 1860, che si concluse con l'abbattimento del Regno delle Due Sicilie. Soffocati gli entusiasmi rivoluzionari del 1848-1849, in Europa erano tornate a emergere tendenze conservatrici o reazionarie. Verso la metà del secolo l'Inghilterra era stata l'unica fra le grandi potenze a conservare in vita gli ordinamenti liberali (che poggiavano su una lunga tradizione): fu anche grazie ad essi che lì la prosperità economica e il prestigio politico raggiunsero livelli notevoli. Il secondo impero di Napoleone III, invece, aveva rafforzato in Francia un regime autoritario, giustificato da un paternalismo demagogico. La borghesia dei paesi più evoluti dell'Europa occidentale, divenuta egemone, si era adeguata alla conservazione e si era accordata con le vecchie aristocrazie pur di dominare le classi subalterne; nell'Europa orientale, invece, l'aristocrazia terriera restava ancora la classe più potente: vi sopravvivevano i regimi dispotici, che trovavano l'esempio più clamoroso nell'autocrazia dello zar Nicola I. Negli stati italiani la situazione era molto simile, se si eccettua il regno di Sardegna in cui Vittorio Emanuele II, consigliato con competenza dal D'Azeglio, si manteneva fedele allo statuto albertino, così guadagnandosi il consenso degli ambienti liberali di tutta la penisola. Promotore geniale e spregiudicato del liberalismo piemontese, Cavour riusciva a governare il paese con sicurezza, anche per essersi procurato una maggioranza parlamentare più dinamica e aperta, per l'"accordo" con le forze democratiche moderate del Rattazzi; la sua politica estera tendeva ad assicurarsi l'appoggio della Francia, che sarebbe tornato utile nell'auspicato conflitto contro l'Austria. Nella primavera del 1860 in Italia si era creata una situazione politica tale da indurre lo stesso Cavour, ancorché alieno da facili entusiasmi, a ipotizzare un'unificazione dell'intera penisola: sembrava, peraltro, che alcune fasce dell'opinione pubblica più evoluta mostrassero una coscienza unitaria matura. Permanevano, tuttavia, notevoli difficoltà, in quanto la Francia avrebbe mal tollerato un attacco piemontese contro lo Stato pontificio o contro il Regno borbonico (difeso anche dalla Russia, diplomaticamente); per l'Austria il pretesto sarebbe risultato favorevole per consentirle di inserirsi nuovamente nel gioco politico italiano e di recuperare le posizioni perdute di recente. L'armistizio di Villafranca e la cessione di Nizza e della Savoia alla Francia avevano discreditato la politica sabauda, rafforzando, per contro, il movimento democratico-repubblicano, facente capo al partito d'azione (un partito rivoluzionario in grado di agire al di fuori di ogni diplomazia, che poteva contare sulla crescente popolarità di Garibaldi). Intanto a Palermo, nell'aprile del 1860, si era scatenata una nuova rivolta contro Francesco II di Borbone, succeduto al padre Ferdinando II nel 1859; la situazione fu giudicata dal partito d'azione un'occasione favorevole per convincere Giuseppe Garibaldi a intervenire. Lo stesso re Vittorio Emanuele (che solitamente conduceva una politica personale, contraria a quella di Cavour) si mostrò consenziente, mentre Cavour, dal canto suo, non intendeva coinvolgere il governo in un'impresa tanto azzardata, con il rischio (in aggiunta) di suscitare la reazione di Napoleone III. Anche Mazzini mirava a realizzare un'unificazione nazionale nel segno di un'azione concorde. All'appello di Crispi e degli emigrati siciliani, pur dopo alcune perplessità, Garibaldi accettò l'incarico e si diresse alla volta della Sicilia, che egli riteneva in piena rivolta. Partita da Quarto (oggi in comune di Genova), in Liguria, il 5 maggio 1860, nonostante l'iniziale opposizione di Cavour, e composta da circa 1.150 volontari imbarcati sui piroscafi Piemonte e Lombardo della Società Rubattino, la spedizione, che riuscì a sfuggire alle navi napoletane, sei giorni dopo, l'11 maggio, sbarcò a Marsala (TP), in Sicilia, in circostanze drammatiche; tra i "Mille" si trovavano, con Garibaldi, Crispi e Giuseppe la Masa. Intanto, Rosolino Pilo e Giovanni Corrao li avevano preceduto sull'isola, fomentando il fermento insurrezionale. Garibaldi assunse la dittatura in nome di Vittorio Emanuele il 14 maggio, a Salemi (TP); il giorno successivo, i "Mille", affiancati da numerose squadre di "picciotti" armati con mezzi di fortuna (pochissimi erano dotati di fucili) e guidati da baroni o da "civili", affrontarono le truppe borboniche a Calatafimi (TP), mettendole in fuga dopo un combattimento molto incerto. Palermo fu presa il 27 maggio e si iniziarono le trattative per una tregua, presto mutatasi in armistizio; anche il resto dell'isola, intanto, insorgeva. Nelle settimane successive la spedizione si accrebbe di altri 15.000 volontari comandati da G. Medici ed E. Cosenz e, appoggiata da moti popolari antiborbonici in molte località, completò la definitiva occupazione dell'isola, avvenuta il 20 luglio dopo la battaglia di Milazzo (ME). In mano napoletana rimaneva la sola Messina, che si sarebbe arresa il 12 marzo 1861. Il 19 agosto Garibaldi sbarcò a Melito di Porto Salvo (RC) e, aiutato dalle insurrezioni della Calabria e della Basilicata, giunse trionfalmente a Napoli il 7 settembre, sconfiggendo definitivamente le forze borboniche al Volturno (1-2 ottobre). Contrario a una immediata annessione del mezzogiorno al Piemonte, dovette tuttavia cedere alle pressioni di Cavour e indire un plebiscito (21 ottobre): il risultato fu nettamente favorevole all'annessione. Nel successivo incontro di Teano con Vittorio Emanuele II (26 ottobre) il generale passò i poteri alla corona sabauda e si ritirò nell'isola di Caprera, in Sardegna. Al successo di Garibaldi, che rese la spedizione siciliana una sorta di "miracolo", aveva concorso una serie di circostanze, tra cui, anzitutto, il fascino suscitato dalla stessa figura del giovane nizzardo: la sua autorità di capo indiscusso, l'atmosfera di giustiziere messianico che lo circondava suscitarono nelle masse fiducia concorde nel moto insurrezionale da lui guidato. Malgrado la discutibilità della validità dell'apporto militare dei "picciotti", di enorme valore risultò anche il significato morale del loro contributo, benché non pochi dei "Mille" guardassero con diffidenza a quelle forze irregolari e non organizzate, che in taluni casi sovvertirono i piani di Garibaldi. Il loro merito, ai fini della riuscita dell'impresa, fu nel creare intorno alle truppe borboniche un'atmosfera di isolamento e di avversione, che fu all'origine delle sconfitte del cosiddetto esercito di "Franceschiello". A guardare, invece, con sospetto Garibaldi e i suoi volontari furono le classi elevate (dall'atteggiamento conservatore, sebbene moderatamente liberaleggiante). Il disincanto tra la rivoluzione e le masse, infine, si evidenziò quasi subito, quando si ricorse alla coscrizione (che risultò un clamoroso fallimento) e agli antichi canali fiscali e giudiziari, con ciò conservando la parte più corrotta e meno popolare della burocrazia; la promessa di censuazione delle terre demaniali fatta agli arruolati, poi, avallò nuove pretese, che dopo tanti differimenti e tanti inganni divennero esplosive. L'appello alle risorse militari e finanziarie del paese, teso a fronteggiare la minaccia militare ancora imminente, non riuscì a ottenere il desiderato trapasso dei poteri e ad agevolare la trasformazione del regime. Ne nacque un'incomprensione da parte di Garibaldi e un atteggiamento di rapida estraniazione, che avrebbe avuto i suoi episodi più clamorosi nelle dure repressioni di Biancavilla, Bronte, Randazzo e Regalbuto; alle invasioni di terre si accompagnarono massacri di civili e alle repressioni seguì molto spesso la ricostituzione delle vecchie oligarchie locali, che riuscirono a sancire la sconfitta degli elementi radicali. V. anche GARIBALDI, GIUSEPPE e REGNO DELLE DUE SICILIE

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