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BORBONE, I
Approfondimento
Approfondimento: BORBONE, I
Illustre casata di origine francese, appartenente a un ramo della dinastia dei Capetingi; salita sul trono di Francia nel 1589, vi rimase per oltre due secoli fino al 1848, con l'interruzione di ventuno anni a causa della Rivoluzione Francese. Secondo la tradizione avrebbe avuto come capostipite un certo Childeprando, fratello di Carlo Martello; in realtà ebbe origine da un vassallo dei conti di Bourges e prese il nome dal suo primo possesso, il castello di Bourbon, situato nella Francia centrale. Acquisendo vari titoli nobiliari, la famiglia diede origine alla linea reale che, iniziata con Enrico IV (1589-1610), si estinse nel 1883, dopo aver rappresentato insieme agli Asburgo una delle case reali più potenti e assolutistiche d'Europa; inoltre, attraverso oculati matrimoni e alleanze, occupò il trono di Spagna con Filippo d'Angiò, che prese il nome di Filippo V (1700-1746), e quelli di Napoli e di Parma, che andarono ai figli di quest'ultimo, rispettivamente Carlo III (Carlo VII come re di Napoli e Sicilia: 1735-1759) e Filippo (1748-1765). Carlo III avviò riforme illuminate, destinate a riportare il benessere nell'Italia meridionale; durante il suo regno furono costruiti il teatro San Carlo, il palazzo reale di Caserta e la reggia di Capodimonte. Il suo successore Ferdinando IV fu costretto nel 1799 a fuggire in Sicilia in seguito all'invasione francese; tornato sul trono alla caduta di Napoleone, assunse il titolo di Ferdinando I re delle due Sicilie (1815-1825). Con il Congresso di Vienna si era decisa anche la sistemazione della penisola italiana. Era stato così che il Regno di Napoli era stato restituito a Ferdinando I di Borbone, già Ferdinando IV di Napoli, con la denominazione di Regno delle due Sicilie, affinché i siciliani non avvertissero di tornare alle dipendenze di Napoli; in seguito, invece, la politica interna dei Borbone dimostrò l'esatto contrario, con ciò favorendo l'atteggiamento "separatistico" dell'isola, che suscitò non poche preoccupazioni nel governo di Napoli. Motivo portante delle decisioni del congresso era stato il cosiddetto principio di legittimità, che fu rispettato solo quando non in contrasto con gli interessi delle potenze vincitrici, in particolare dell'Austria. In seguito al trattato in Sicilia vennero a mancare le libertà costituzionali già acquisite e la fragile sovrastruttura economica subì un tracollo: il 15 maggio il re, prima di lasciare Palermo, sciolse il parlamento; l'8 dicembre abolì la costituzione, assumendo il nuovo titolo reale. Mentre gli ordinamenti politici e amministrativi della Sicilia si assimilavano a quelli del regno continentale, si affermava sempre più, seppure non ufficialmente, il "sicilianismo", il senso di autonomia da Napoli; i vasti risentimenti degli isolani (avvertiti da tutti i ceti) furono aggravati dalla politica accentratrice e livellatrice, cui si accompagnò una crisi economica. In questo clima a Palermo (dove si aspirava a un ritorno alle "libertà" del 1812) prese le mosse la rivoluzione del 1820-21, alla quale si opposero Catania e Messina che, tradizionalmente democratiche, si mostravano disposte ad accettare la costituzione spagnola giurata a Napoli dal re. A Palermo si insediò una giunta provvisoria di governo, la cui politica, che consistette nel trattare con i napoletani (all'esterno) e nell'inviare (all'interno) "squadriglie" verso le zone che si opponevano all'autorità della capitale, spinse il parlamento di Napoli a inviare in Sicilia una spedizione militare, comandata da Florestano Pepe, prima, e da Pietro Colletta, poi. La rivoluzione siciliana fu sconfitta dall'intervento austriaco, che sottometteva la rivoluzione a Napoli. A Ferdinando I succedette Francesco I (1825-1830), alla cui morte salì al trono Ferdinando II (1830-1859), che dapprima governò con moderazione e saggezza, facendo sperare in un governo liberale, ma in seguito divenne sostenitore dell'ideale assolutistico più gretto e reazionario e represse duramente le aspirazioni nazionaliste e liberali del regno -nel 1844 avrebbe fatto fucilare i fratelli Bandiera sbarcati in Calabria allo scopo di indurre una sollevazione popolare-. Ma la sua azione repressiva (non sistematica e frammentaria), che per un verso lasciava scontenti i sostenitori più fedeli, indirettamente assicurava una nuova autonomia alla nobiltà, che fu blandita e chiamata a occuparsi dei moti democratici (nei moti del 1837, a Siracusa e a Catania). Anche la borghesia agraria trasse vantaggio dalla nuova situazione: le sue usurpazioni a carico dei bilanci e dei demani comunali furono, man mano che si dissolvevano le promiscuità feudali, tollerate, quando non indirizzate contro l'espresso dettato della legge. Nel periodo della rivoluzione del '37 il colera si manifestò in maniera dilagante; soprattutto presso le classi popolari della città e delle campagne si diffuse l'opinione per la quale l'epidemia fosse dovuta al "veleno" diffuso da funzionari borbonici; la credenza sarebbe durata fino ai moti del 1855. Per questo, l'indipendenza della Sicilia da Napoli si vide come necessaria alla risoluzione di tutti i problemi: sintomaticamente, la siciliana bandiera gialla fu simbolo della rivoluzione dei democratici catanesi del 1837. La politica dei sovrani napoletani e dei loro luogotenenti ormai non accontentava più nemmeno i pochi amici su cui la monarchia poteva contare ancora nell'isola; la corona non riuscì a conquistare nuovi sostenitori e alleati. Essa non aveva danneggiato il baronaggio ma con l'abolizione della costituzione del 1812 quest'ultimo aveva perso la potenza politica; la stessa influenza personale dei baroni risultava decisamente ridotta nell'isola, suddivisa in sette province, guidate da intendenti di nomina regia, solitamente non favorevoli al baronaggio locale; gli aristocratici trovavano solidale anche la grossa borghesia nell'avversione alla monarchia, il cui regime favoriva, con il protezionismo, gli interessi della zona continentale. La finanza locale era stata sottoposta al controllo del Consiglio d'intendenza, così conferendo una diversa struttura all'organismo municipale; nel nuovo ordinamento la borghesia rurale vedeva una minaccia al proprio potere e paventava che fosse messa a nudo la lenta e costante opera di erosione attuata sul patrimonio comunale, se fossero stati posti in esecuzione i decreti per lo scioglimento delle promiscuità. Dal canto suo, il ceto medio intellettuale si mostrava deluso dalla piega involutiva della politica monarchica, divenuta reazionaria; nel dibattito sui temi di economia e di storia si evidenziava sempre più il divario fra l'opinione colta siciliana e la politica di una monarchia incapace di indirizzare il paese al progresso economico e al rinnovamento sociale; il ceto artigianale lamentava l'arresto dello sviluppo tecnico e organizzativo in una fase arcaica e alle sue rimostranze si unì la plebe urbana; per le masse contadine le speranze si alternavano alle delusioni, nell'attesa che si attuassero quella giustizia e quel benessere già promessi più volte da un sovrano lontano: i censimenti delle terre comunali avrebbero dovuto ristabilire la giustizia, dopo le numerose usurpazioni di nobili e borghesi. Nel periodo che precede il 1848, dunque, la funzione della monarchia borbonica in Sicilia è decisamente mutata; si va affermando, fino a prevalere, la soluzione federalista, che però non trova consenso pieno. Le figure più rappresentative della cultura siciliana sono emerse dall'isola e tengono contatti con uomini della cultura italiana ed europea; nella loro opera economica, filosofica, letteraria, pedagogica, scientifica, storiografica si evidenzia l'incoerenza tra i fini (ideali e pratici) di una moderna comunità e la quotidiana oppressione attuata dalla politica napoletana. Lo stesso Ferdinando II fu comunque un abile e saggio amministratore: stimolò il commercio e favorì le opere pubbliche, facendo costruire, fra l'altro, la prima ferrovia d'Italia, la Napoli-Portici (1839). Nel 1848, in seguito ai moti rivoluzionari di Palermo e del Cilento, fu costretto a concedere la costituzione (modellata su quella francese del 1830) e a mandare un corpo di spedizione in Lombardia per appoggiare il Piemonte contro l'Austria; in seguito sciolse il parlamento e riprese il potere assoluto, determinando lo scoppio di altri moti popolari a Napoli, in Calabria e poi in Sicilia (maggio-settembre 1848), che represse sanguinosamente (maggio 1849). Abrogata la costituzione, all'interno del regno si instaurò un duro regime di polizia, con processi e condanne mirati a piegare le istanze liberal-nazionali; al di fuori, invece, si creò un clima di avversione e di crescente isolamento internazionale. Il regno resistette ad altri tentativi insurrezionali, come quello di Carlo Pisacane (1857), ma la crisi era ormai in atto. Ferdinando II morì nel 1859 quando la seconda guerra di indipendenza stava avendo i primi successi; suo figlio Francesco II (1859-1860), l'ultimo dei Borboni di Napoli, fu cacciato dai Mille di Giuseppe Garibaldi (1860-61). V. anche MILLE, SPEDIZIONE DEI e REGNO DELLE DUE SICILIE